XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI (3-28 ottobre)

I giovani, la fede e il discernimento vocazionale

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mons piero coda

(Piero Coda) «Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio». Così Papa Francesco nel discorso pronunciato il 17 ottobre 2015, in occasione del cinquantesimo dell’istituzione del Sinodo dei vescovi da parte di Paolo VI, quando ormai ci si avviava verso la conclusione del concilio Vaticano II. Un’affermazione programmatica e impegnativa come questa, tanto più se inquadrata nel contesto di una Chiesa interpellata alla riforma della sua vita in ordine a una più incisiva uscita missionaria, non poteva non ricevere l’attenzione che merita dalla Commissione teologica internazionale. 

La quale appunto, in quest’ultimo quadriennio, in una delle tre sotto-commissioni in cui articola i suoi lavori, ha intensamente lavorato per approfondire il significato della sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, come recita il titolo del documento appena pubblicato.

In particolare, due centri di gravità emergono con evidenza dalla lettura del documento: il fatto che l’assunzione di una corretta pratica sinodale è senz’altro una sfida prioritaria per la Chiesa oggi in fedeltà creativa al magistero del Vaticano II; perché la sinodalità, correttamente intesa e praticata, esprime e attualizza la natura e la missione più autentiche e profonde della Chiesa nella storia. È vero infatti che la messa in rilievo della sinodalità quale «dimensione costitutiva della Chiesa» è un fatto che, esplicitamente, è piuttosto recente nella Chiesa cattolica, essendo connessa alla recezione dell’ultimo concilio. Ma è altrettanto indubitabile che l’esperienza che questa parola dice, e le forme concrete di vita ecclesiale che la realizzano, affondano le radici nell’evento stesso di Gesù Cristo e nella prassi di vita della comunità cristiana fin dalle origini, come tale poi trasmessa — con declinazioni diverse lungo i secoli — sino a giungere a noi.


Lo affermava già un padre della Chiesa come Giovanni Crisostomo: «Chiesa è nome che sta per sinodo», e cioè per cammino fatto insieme: perché sinodo è parola greca composta dalla proposizione sýn, che significa “con”, e dal sostantivo hodós, che significa “via”. Non furono chiamati in origine «discepoli della Via» — che è Gesù — i cristiani, come attestano gli Atti degli apostoli? Cammino fatto insieme, dunque, sotto la guida del Signore risorto, da tutto il popolo di Dio, nella variegata e ordinata pluralità dei suoi membri e nell’esercizio responsabile e convergente dei diversi ministeri, dei diversi carismi, dei diversi compiti e stati di vita. Lo ha sottolineato, lo scorso anno, la Congregazione per la dottrina della fede nella lettera Iuvenescit ecclesia sulla coessenzialità di doni gerarchici e doni carismatici. 


La Chiesa, in effetti, è cammino insieme che contempla il radunarsi in assemblea non solo in quella forma fontale e costitutiva del suo essere che è la sinassi eucaristica: quando il popolo di Dio ascolta la parola e celebra il sacramento del corpo e del sangue del Signore, in grazia del quale egli si rende presente in mezzo al suo popolo per la salvezza del mondo; ma anche per discernere di tempo in tempo, in ascolto dello Spirito santo, le questioni dottrinali, canoniche e pastorali che via via la interpellano. È così che è scaturita, dal cuore dell’esperienza della fede vissuta dal popolo di Dio, un’ininterrotta prassi sinodale: a livello diocesano, provinciale, regionale e universale. E ciò in fedeltà al principio inderogabile che le strutture e i processi in cui si è sviluppato quest’intenso e ininterrotto dinamismo, pur segnati dalla diversità delle culture, dei contesti storici, delle sensibilità spirituali, si realizzassero sempre nel riferimento normativo alla testimonianza della sacra Scrittura e all’insegnamento della tradizione.


Il concetto di sinodalità, in questo senso, va distinto — precisa il documento della Commissione teologica internazionale — e insieme va messo in relazione con i concetti di comunione e di collegialità che sono al cuore della dottrina ecclesiologica del Vaticano II. Rispetto a comunione, sinodalità esplicita il modo di vivere e di operare in concreto della Chiesa in quanto essa è, per grazia, nel suo mistero più profondo, la partecipazione dei discepoli alla comunione d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Ma dice qualcosa di specifico anche rispetto al concetto di collegialità, in quanto quest’ultimo esprime il significato e l’esercizio del ministero dei vescovi quali membri del collegio episcopale in comunione gerarchica con il vescovo di Roma, a servizio della comunione tra le Chiese locali in seno all’unica e universale Chiesa di Cristo. Il fatto è che il dinamismo sinodale di cui la Chiesa vive la sua missione implica inscindibilmente due cose: la partecipazione e corresponsabilità di tutti i battezzati e l’esercizio specifico dell’autorità di cui, in seno al popolo di Dio e a suo servizio, sono insigniti i pastori: il vescovo nella singola Chiesa, il collegio dei vescovi in comunione gerarchica con il Papa nei diversi raggruppamenti di Chiese a livello provinciale e regionale e, in forma peculiare, sul livello della Chiesa universale.


Se questa è, nel fondo, l’esperienza della Chiesa di sempre, l’ecclesiologia del Vaticano II ha introdotto la Chiesa in una fase nuova del suo cammino che, tra luci e ombre, ha conosciuto importanti acquisizioni nei cinquant’anni della sua recezione. Si esige oggi — ed è a questo che invita Papa Francesco, in continuità col magistero dei suoi predecessori — un salto di qualità: nel risvegliare le energie e nell’immaginare le forme, in fedeltà creativa al deposito della fede, di una pertinente e coraggiosa prassi sinodale capace di coinvolgere tutti e ciascuno nel Popolo di Dio. Non si tratta di una semplice operazione di ingegneria istituzionale, il documento della Commissione teologica internazionale lo argomenta con nitidezza: si tratta innanzi tutto di rendersi disponibili a quella conversione del cuore e dello sguardo, dono dello Spirito di Cristo, che rende capaci di attivare nella vita e nella missione della Chiesa uno stile e una prassi sinodale sempre più rispondenti alle esigenze del Vangelo e al compito urgente dell’evangelizzazione.


Del resto, non è un caso che l’istanza della sinodalità, sia pure con modalità diverse e con la necessità di decisive chiarificazioni, venga oggi messa sul tappeto come questione essenziale nel cammino ecumenico per giungere alla piena e visibile unità tra le Chiese e comunità ecclesiali. La Commissione teologica internazionale fa riferimento, in proposito, al documento di Chieti (2016) frutto dei lavori della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, e al documento del Consiglio ecumenico delle Chiese The Church. Towards a Common Vision (2013).


La sinodalità infine — il documento della Commissione teologica internazionale non manca di richiamarlo — dice qualcosa di essenziale circa l’impegno a rendere presente e operante il lievito, il sale, la luce del Vangelo nel contesto della società planetaria del nostro tempo. Gli appuntamenti cruciali che si profilano all’orizzonte per l’intera famiglia umana chiedono uno spirito e una cultura dell’incontro e del reciproco ascolto, del dialogo e della cooperazione. La disaffezione nei confronti dei metodi e delle strutture di partecipazione nelle società democratiche, la tentazione di chiudersi nei particolarismi, i rigurgiti autoritari e il pericolo di una dittatura strisciante dei poteri economici e della tecnocrazia esigono vigilanza e visione, coinvolgimento, competenza e rinnovato impegno. Di qui l’esigenza di offrire luoghi e processi di adeguata formazione e di efficace esercitazione al dialogo e alla partecipazione. L’invito di san Giovanni Paolo II a vivere la Chiesa come «casa e scuola di comunione» (Novo millennio ineunte, 43) valorizzando le strutture sinodali previste dal Vaticano II, e quello di Papa Francesco ad «avviare processi» di «discernimento, purificazione e riforma» (Evangelii gaudium, 30) rivestono un preciso significato anche culturale, nel servizio a un condiviso esercizio della giustizia e della solidarietà sociale a livello locale e a livello globale.

L'Osservatore Romano, 3-4 maggio 2018.