Testimonianza di Daniel, un giovane milanese
Mi chiamo Daniel Zaccaro. Ho 25 anni e ho vissuto la mia infanzia a Quartoggiaro, un quartiere difficile di Milano. Qui - come purtroppo accade a molti giovani miei coetanei – sono cresciuto immerso in una cultura materiale assordante. Soldi, successo, immagine, potere: non avevo altre prospettive. Per sentirmi all’altezza della situazione, fin da giovanissimo ho cominciato a fare reati. Inizialmente, piccoli furti nel mio quartiere. Verso i 17 anni, sono arrivato a commettere rapine in banca. Per questo motivo, sono stato arrestato e ho compiuto i miei 18 anni in una cella del carcere minorile Beccaria di Milano.
Con l’arresto pensavo di avere raggiunto una certa notorietà nel quartiere: tutti avrebbero parlato di me, immaginavo. Compresi nel tempo, invece, che era solo l’inizio di un lungo viaggio molto doloroso. Dentro il carcere misi in atto il mio copione predefinito: rifiuto dell’autorità, insofferenza per le regole e verso ragazzi di altre etnie. Ricordo i primi giorni in cella con altri due ragazzi rom: un vero incubo! Non riuscivo ad accettare di dover condividere la cella con loro. Per cattiva condotta, ho preso in carcere diversi rapporti disciplinari. Come se non bastasse, sono stato trasferito, per questioni sempre disciplinari, in altri tre carceri minorili italiani: a Bologna, a Catania e a Bari. Ero ingestibile e violento, incattivito da un ambiente carcerario che percepivo solo come luogo punitivo.
Al Beccaria, fin dai primi giorni, conobbi don Claudio, uno dei due cappellani insieme a don Gino. Con lui riuscivo a parlare e a farmi ascoltare. Non ero abituato a fidarmi degli adulti, se non quelli del mio quartiere. Con don Claudio era diverso. E’ per questo che, dopo un anno di carcere, chiesi al giudice la possibilità di andare a vivere nella sua comunità di accoglienza. Per il giudice di sorveglianza non ero ancora pronto. Ne avevo combinate troppe! Passarono altri due anni in carcere, finchè il magistrato acconsentì. Finalmente entrai nella comunità Kayros di don Claudio.
In passato, avevo già sperimentato alcune comunità da dove mi ero allontanato dopo poche ore. In ognuna di esse, l’approccio era sempre lo stesso: prima ancora di conoscere il mio nome, il responsabile mi leggeva un interminabile elenco di regole che avrei dovuto sottoscrivere e poi seguire. Nella comunità Kayros di don Claudio era tutto diverso: mi sentii da subito a casa, accolto con simpatia e fiducia. Non che non ci fossero regole, ma la mia libertà era presa sul serio. Ero chiamato a decidere io, ero messo di fronte alle mie scelte con responsabilità.
Oggi, comprendo che don Claudio è stato con me molto “furbo”. Non mi imponeva nulla, ma sempre interpellava la mia libertà. Come quella volta che volendo stare fuori casa oltre l’orario consentito dal giudice, gli telefonai per strappare un sì o per sentirmi dire un prevedibile no. La risposta di don Claudio fu: “Sei grande, decidi tu con la tua testa. Tu conosci la risposta, non te la devo dare io. So che saprai scegliere bene!”. Fu questo uno degli episodi che diede inizio al mio cambiamento. C’era qualcuno che credeva in me e nella mia capacità positiva di scelta e mi chiamava ad assumermi con coscienza le mie responsabilità.
Feci due anni nella comunità Kayros. Finita di scontare la mia pena giuridica, tornai a casa, a Quartoggiaro. Mi sentivo pronto, già cambiato. Durai solo sei mesi. Per un altro reato, questa volta si aprirono le porte di San Vittore, il carcere degli adulti di Milano.
Sei mesi durissimi, dove ho davvero toccato il fondo come non mai prima.
Come spesso succede, però, un incontro nel momento più duro del carcere mi ha aiutato ad affrontare la sfida. Una anziana volontaria di San Vittore mi mise nel cuore il desiderio di riprendere gli studi.
Terminati i sei mesi chiesi a don Claudio di poter ritornare nella sua comunità. Non ero obbligato dalla legge, ma sentivo che avevo bisogno di un nuovo periodo di riflessione e di crescita.
Don Claudio accettò e, dopo due anni, eccomi qui. Oggi vivo in comunità con un senegalese, un marocchino e un russo. Non mi faccio più problemi come un tempo; anzi, imparo molto nel condividere la vita con giovani di culture e religioni diverse da me.
Sono stati due anni incredibili, dove ho scoperto con stupore un altro me. Sono tornato a scuola. Ho cambiato percorso di studio concludendo con la maturità la scuola superiore che avevo interrotto con l’arresto cinque anni prima. Ho sostenuto, l’anno scorso, la maturità e ora sto sostenendo gli esami del primo anno all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nella Facoltà di Scienze della formazione.
Sempre l’anno scorso ho anche ricevuto il sacramento della Cresima alla quale mi sono preparato grazie anche ai seminaristi in tirocinio pastorale in comunità. Sono nate in me molte domande di fede. Ho cominciato a porre molte di queste domande a don Claudio e ho cominciato a conoscerlo in maniera nuova. In carcere, don Claudio non mi aveva mai parlato di Dio, anche perché a me non interessavano certi discorsi. Oggi comprendo che per educare i giovani alla fede occorre innanzitutto permettere a loro di ritrovare le domande perdute.
Mi è nata la curiosità e ho iniziato a conoscere di più il mondo della Chiesa. Spesso don Claudio mi porta a incontrare altri giovani nelle parrocchie e ho così avuto modo di conoscere altri preti e giovani come me. Mi sono chiesto: “Tra le tante persone che conosco i cristiani sono indubbiamente le persone più felici e più vere”. In questi giorni sto preparando l’esame di Teologia all’Università sul Vangelo di Marco. È incredibile: sembra che questo testo scritto secoli fa parli a me, alla mia vita. Ogni persona incontrata da Gesù sembra che racchiuda un pezzo della mia storia. Il passo del Vangelo che più mi interpella in questi giorni è quello di Marco 8,36: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima”.
Se dovessi dire qualcosa sul tema di questo seminario e sul sinodo dei giovani, partendo dalla mia esperienza, direi senza dubbio che non è possibile alcun discernimento se stai sempre con chi ti assomiglia. Nel mio quartiere eravamo tutti uguali, ripetevamo modelli di comportamento consueti. Oggi capisco che solo il confronto col diverso da me, mi aiuta a conoscermi meglio e incoraggia scelte autentiche fuori e dentro la Chiesa. Nella fede, come nella vita, non si cresce mai da soli. E per stare insieme, occorre mettere al centro il perdono.
Non posso ancora dirmi un credente vero e proprio, però avverto sempre di più la bellezza del Cristianesimo. E la proposta cristiana è bella perché esigente, perché interpella seriamente la mia libertà e non mi propone facili scorciatoie per la felicità. Nell’ambito dei rapporti affettivi, per esempio, la proposta cristiana mi affascina anche se non sono in grado forse ancora di viverla in pienezza. Molti giovani abituati come me a vivere l’amore come possesso e nella logica utilitaristica dell’amore usa e getta, messi di fronte all’amore per sempre tremano non poco. Eppure, capisco che solo un amore che è dono può durare tutta la vita.
Cosa chiedo alla Chiesa e a questo Sinodo. Di non dimenticarsi di noi, di quei giovani che per un misterioso disegno della vita hanno conosciuto l’abbandono, il carcere e la solitudine. Noi, proprio per i nostri sbagli, per tutte le sofferenze provate e per l’esperienza di cambiamento che stiamo vivendo possiamo essere un dono anche per altri giovani.
Chiedo, inoltre, di farci incontrare un Vangelo vivo perché il nostro essere chiesa non sia solo di facciata o per convenzione. Un Vangelo vivo che si esprima attraverso il volto di persone vere e felici, come è successo a me in questi anni. Ringrazio Dio per le persone che in questi ultimi anni mi ha messo a fianco. Attraverso la loro testimonianza quotidiana, mi hanno affascinato e attratto al Bene. E il Bene fatto in silenzio, fa molto più rumore!
So che ora tocca a me offrire agli altri una testimonianza vera, come cerco di fae quest’oggi, accettando il vostro invito. Grazie per l’occasione che mi avete dato di intervenire a questo Seminario. È per me un vero Kayros.