Sinodo per l'Amazzonia e Diritti Umani. Popoli, comunità e Stati in dialogo
SINODO PER L’AMAZZONIA E DIRITTI UMANI
Popoli, comunità e Stati in dialogo
da card. Pedro Ricardo Barreto
Rivolgendosi ai popoli indigeni amazzonici, papa Francesco ha detto loro: «La Chiesa non è aliena dalla vostra problematica e dalla vostra vita, non vuole essere estranea al vostro modo di vivere e di organizzarvi. Abbiamo bisogno che i popoli originari plasmino culturalmente le Chiese locali amazzoniche»[1].
A partire dalle fondamentali premesse del dialogo e della ricerca del bene comune, il prossimo Sinodo speciale per l’Amazzonia desidera contribuire alla costruzione di nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale. L’obiettivo è creare le condizioni che permettano ai popoli che abitano nel vasto e importante territorio amazzonico di vivere con dignità e di guardare con fiducia al futuro, sempre nella cornice del reciproco rispetto e del riconoscimento delle responsabilità differenziate e complementari che toccano agli attori sociali, politici e religiosi.
Il Sinodo per l’Amazzonia e, più ampiamente, la missione della Chiesa in questo territorio sono di fatto espressioni di un significativo accompagnamento della vita quotidiana dei popoli e delle comunità che vi abitano. La presenza della Chiesa non può essere in alcun modo considerata una minaccia per la stabilità o per la sovranità dei singoli Paesi. Anzi essa è, in realtà, un prisma che permette di identificare i punti fragili della risposta degli Stati, e delle società in quanto tali, davanti a situazioni urgenti, riguardo alle quali, indipendentemente dalla Chiesa, ci sono debiti concreti e storici che non si possono eludere.
D’altra parte, l’opportunità di guardare all’identità di questi popoli e alla loro capacità di proteggere tali ecosistemi secondo il loro specifico modo culturale e la loro visione del mondo può consentire alle nostre società non amazzoniche di creare condizioni adeguate per apprezzarli, per rispettarli e per apprendere da essi. Così un giorno forse riusciremo a superare la concezione di questo territorio come di uno spazio vuoto o «arretrato»; anzi, ne trarremo orientamenti utili a individuare il perché dei nostri stessi fallimenti in quanto società riguardo alla cura della nostra «Casa comune».
A tale proposito, anche la Chiesa può dare un contributo sulla scorta della sua presenza storica, lunga, legittima (nonostante le ombre e con le sue luci particolari), e con la sua proiezione verso una presenza futura secondo una visione di lungo termine.
Ci auguriamo che, a partire da queste premesse, alcuni governi possano superare posizioni di sospetto e possano ascoltare con maggiore attenzione le voci flebili e gli appelli urgenti che vengono dal territorio e di cui la Chiesa vuole farsi compagna di cammino e portavoce, samaritana e profetica, come si afferma nella parte III dell’Instrumentum laboris del Sinodo.
In questo momento di singolare importanza in cui il Papa ha convocato il Sinodo speciale, possiamo dire che il Documento di lavoro, presentato il 17 giugno, è un’espressione della voce del popolo di Dio. Di fatto, è stato svolto un ampio processo di ascolto diretto del territorio[2] per ampliare la partecipazione di appartenenti alle popolazioni locali e di persone di Chiesa, mediante assemblee, forum tematici e dibattiti, raggiungendo oltre 87.000 persone (22.000 in eventi organizzati dalla Red eclesial panamazónica [Repam][3] e circa 65.000 nelle fasi preparatorie) dei nove Paesi che compongono questo territorio. Pertanto, il documento esprime in larga misura il sentimento e i desideri di molti rappresentanti del popolo amazzonico[4].
Questa è un’esperienza inedita per un Sinodo speciale, e pertanto – pur senza perdere di vista il fatto che si tratta di un evento eminentemente ecclesiale – è un buon indicatore di quanto accade in questo territorio. Crediamo che l’espressione di tale ricchezza possa apportare, al di là di ogni posizione sospettosa, elementi per una migliore comprensione di una realtà che grida.
Situazione di vulnerabilità e importanza della regione
La conca amazzonica è stata una regione storicamente concepita come uno spazio da occupare e spartire in funzione di interessi esterni; infatti, in un primo momento essa venne considerata un territorio non occupato. Quando se ne scoprirono le risorse naturali, si cominciò a considerarla una regione di grande interesse. Tuttavia alla sua immagine viene associata una concezione di arretratezza, di realtà tagliata fuori dalla centralità urbana e che conserva un vuoto demografico: connotati, questi, che consentono agli interessi di certi gruppi di considerarla un territorio disponibile, sebbene molte volte vengano rese invisibili le sue ricchezze culturali, di fauna e di flora.
L’area abbraccia complessivamente una superficie di circa 7,5 milioni di chilometri quadrati. È suddivisa fra otto Paesi sudamericani (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela), più il territorio di oltremare della Guyana francese. Costituisce il 43% della superficie dell’America del Sud. Nella regione amazzonica si concentra il 20% dell’acqua dolce non congelata della Terra. Vi sorge il 34% dei boschi primari del Pianeta, che a loro volta ospitano fra il 30 e il 40% della fauna e della flora mondiali.
È un bioma, vale a dire un sistema vivo, che funge da stabilizzatore climatico regionale e globale, mantenendo l’aria umida, e produce un terzo delle piogge che alimentano la Terra. Possiede una grande sociodiversità, dal momento che lo abitano circa 2.800.000 indigeni, appartenenti a 390 popoli, 137 dei quali isolati o senza contatti esterni; vi si parlano 240 lingue, appartenenti a 49 famiglie linguistiche diverse. I suoi abitanti si aggirano attorno ai 33 milioni.
Papa Francesco conosce i popoli amazzonici e le questioni che pongono, e afferma: «Probabilmente i popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora. L’Amazzonia è una terra disputata su diversi fronti: da una parte, il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, il legno, l’oro, le monocolture agro-industriali; dall’altra parte, la minaccia contro i vostri territori viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la “conservazione” della natura senza tener conto dell’essere umano e, in concreto, di voi fratelli amazzonici che l’abitate. […] Considero imprescindibile compiere sforzi per dar vita a spazi istituzionali di rispetto, riconoscimento e dialogo con i popoli nativi; assumendo e riscattando cultura, lingua, tradizioni, diritti e spiritualità che sono loro propri. Un dialogo interculturale in cui voi siate “i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i [vostri] spazi” (Laudato si’ [LS], n. 146). Il riconoscimento e il dialogo saranno la via migliore per trasformare le antiche relazioni segnate dall’esclusione e dalla discriminazione»[5].
La Chiesa nella conca amazzonica
Nel contesto dell’Amazzonia, la Chiesa, fin dal principio, è andata incontro alle culture, con luci e ombre. Seguendo il comandamento evangelico, essa accompagna il ritmo con cui procede il popolo più povero. In queste realtà si percepisce la vitalità missionaria della Chiesa in Amazzonia. Questa porzione del Pianeta è il bioma in cui si esprime la vita nella sua straordinaria diversità in quanto dono di Dio a tutti quelli che la abitano e a tutta l’umanità. Tuttavia, essa è un territorio sempre più devastato e minacciato.
Secondo la dottrina sociale della Chiesa, alla missione di ogni cristiano è associato un impegno profetico verso la giustizia, la pace, la dignità di ogni essere umano senza distinzione, e verso l’integrità del creato, in risposta a un modello di società predominante che produce esclusione, disuguaglianza e che provoca quella che papa Francesco ha chiamato una vera e propria «cultura dello scarto» e una «globalizzazione dell’indifferenza».
Come si è già detto, questo bioma, oltre a essere «fonte di vita nel cuore della Chiesa» e uno dei territori di maggiore biodiversità al mondo, è anche il luogo in cui da secoli vivono molte culture, che attualmente vedono a rischio la propria esistenza e identità a causa del modello fortemente neo-estrattivista che oggi viene imposto[6].
Disponendo di tutti i mezzi opportuni, della legittimità sul piano locale, regionale e internazionale, della sua prospettiva storica e in proiezione futura, la Chiesa può collaborare con tutte le istituzioni governative, con le organizzazioni della società civile e, specialmente, con i popoli stessi, nella certezza che la promozione, la difesa e l’esigibilità dei diritti umani siano nell’interesse genuino di tutti.
Insieme, ciascuno nei rispettivi spazi, siamo chiamati a creare le possibilità affinché vi sia quel «futuro sereno», soprattutto per i popoli indigeni, a cui si è riferito papa Francesco nel convocare questo Sinodo speciale. Egli ha scritto nell’enciclica Laudato si’: «La visione consumistica dell’essere umano, favorita dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata, tende a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità. […] È necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura» (LS 144).
Ciò deve indurre alla riflessione sulla necessità di cercare e trovare nuove strade per armonizzare il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente con lo sviluppo economico, sociale e produttivo. In questa prospettiva, ci sentiamo chiamati a cercare un modello di sviluppo che tenga conto della realtà interculturale dell’Amazzonia e assicuri la protezione dei beni del creato.
Afferma ancora il Papa: «In questo senso, è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. […] Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli o di allevamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura» (LS 146).
A tal fine, nel settembre del 2014, è stata creata la Red eclesial panamazónica, che ha ricevuto l’approvazione della Santa Sede con una lettera di papa Francesco, inviata tramite il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato. In essa si afferma: «Non possiamo vivere soli, rinchiusi in noi stessi […]. Soltanto in questo modo, grazie alla rete, la testimonianza cristiana può raggiungere le periferie esistenziali umane, permettendo al lievito cristiano di fecondare e far progredire le culture vive dell’Amazzonia e i loro valori».
Stati, imprese straniere e diritti dei popoli nella Panamazzonia
L’esperienza pastorale di decenni, e degli anni recenti (come la Repam), ci fa capire anche che tra i responsabili vanno compresi non soltanto quegli Stati in cui vengono sviluppate le industrie estrattive, ma anche alcune imprese straniere e i loro Stati di origine, vale a dire quelli che appoggiano e favoriscono gli investimenti estrattivi, pubblici o privati, al di fuori delle loro frontiere nazionali, approfittando della ricchezza della terra, a costo di impatti devastanti sull’ambiente amazzonico e sui suoi abitanti.
La maggior parte degli Stati di questo territorio ha sottoscritto le principali convenzioni internazionali sui diritti umani e sui relativi strumenti associati ai diritti dei popoli indigeni e alla cura dell’ambiente. Pertanto siamo certi che si impegneranno a osservarle. La Chiesa desidera essere ponte e collaboratrice per raggiungere tale obiettivo, volto al bene di ciascuno dei Paesi rappresentati in questo territorio, ovvero la vita degna e piena dei popoli che vi abitano e la cura di questo ecosistema essenziale per il presente e per il futuro del Pianeta.
La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (approvata il 13 settembre 2007), a cui il Papa ha fatto riferimento in diverse occasioni, contiene diritti importanti come quello all’autodeterminazione, in virtù del quale quei popoli decidono liberamente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale (art. 3). Nell’esercizio del loro diritto all’autodeterminazione, i popoli indigeni possono rivendicare l’autonomia nelle questioni riguardanti i loro affari interni e locali (art. 4). E dall’art. 6 della Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) sui popoli indigeni e tribali, del 1989, si ricava il loro diritto a non subire misure legislative o amministrative che li possano riguardare direttamente senza essere stati prima consultati «in buona fede e in forma appropriata alle circostanze», affinché diano il proprio consenso previo, libero e informato.
Apprezziamo in modo particolare il fatto che tra i Paesi che hanno ratificato la Convenzione 169 dell’Ilo sui popoli indigeni e tribali figurino i seguenti Stati: Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù e Venezuela. Parimenti, Bolivia, Brasile, Ecuador, Francia (Guyana francese), Perù, Suriname e Venezuela hanno votato a favore dell’adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni.
Quanto alla risposta ferma ai cambiamenti climatici che costituisce una crisi ecologica globale ineludibile, tutti gli Stati che fanno parte della conca amazzonica sono firmatari dell’Accordo di Parigi, e siamo convinti del loro impegno, con i rispettivi contributi previsti e determinati a livello nazionale. D’altra parte, data l’«emergenza climatica»[7] che oggi affrontiamo, dobbiamo chiedere loro molto di più, così come l’intera società deve operare molto più efficacemente per questo stesso fine. Il mantenimento di tale ecosistema è fondamentale per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Papa Francesco stesso osserva che i popoli originari, «quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura» (LS 146).
Sul piano nazionale, alcuni Stati amazzonici hanno progressivamente inserito nelle loro Costituzioni questi stessi diritti alla consultazione previa, libera e informata, come pure hanno sviluppato standard ambientali per ridurre la deforestazione e hanno creato meccanismi per assicurare il rispetto delle riserve naturali e il riconoscimento di terre indigene per possesso ancestrale. D’altra parte, e occorre dirlo a chiare lettere, esistono seri limiti e, in alcuni casi, mancano un impegno efficace e una volontà esplicita di attuare tali piani.
Parallelamente, le popolazioni indigene contadine e altri settori popolari di ogni Paese hanno sviluppato processi politici organizzativi incentrati su agende improntate a diritti legittimi che devono essere riconosciuti e rispettati, se ricadono nell’ambito dello stato di diritto.
Popoli indigeni in isolamento volontario o popoli liberi
I popoli indigeni in isolamento volontario (Piav) devono essere considerati con la massima attenzione, a causa del loro alto grado di vulnerabilità, della loro condizione antropologica specifica e della necessità di proteggerli da qualsiasi processo che possa sfociare in una violazione dei loro diritti umani. Ha affermato papa Francesco: «Il retaggio di epoche passate li ha obbligati a isolarsi persino dalle loro stesse etnie, iniziando una storia di reclusione nei luoghi più inaccessibili della foresta per poter vivere in libertà. Continuate a difendere questi fratelli più vulnerabili. La loro presenza ci ricorda che non possiamo disporre dei beni comuni al ritmo dell’avidità e del consumo»[8].
Quella di proteggerli è un’esigenza etica fondamentale, che per la Chiesa si traduce in un imperativo morale coerente con la prospettiva dell’ecologia integrale proposta da papa Francesco nella Laudato si’.
Facciamo nostra la sfida
Come Chiesa, seguendo gli appelli del Pontefice e desiderando una comunione con e nelle società in cui viviamo, vogliamo vivere una «cultura dell’incontro» in Amazzonia con i popoli indigeni, con le comunità che abitano le rive dei fiumi, gli afrodiscendenti, i piccoli contadini, gli abitanti delle città, le comunità di fede, e un dialogo rispettoso e costruttivo con altre religioni ed entità politiche e sociali.
In questo spirito, i rappresentanti ufficiali della Santa Sede e della Repam accompagnano i membri dei popoli e delle comunità amazzoniche in diversi ambiti internazionali e regionali del sistema delle Nazioni Unite, affinché possano presentare le situazioni particolari che li riguardano.
Quanto a noi, membri della Chiesa cattolica in Amazzonia, vogliamo essere testimoni vivi di speranza e di cooperazione e continuare a prestare un servizio evangelizzatore che affondi le radici nel suolo fertile dove vivono i nostri popoli amazzonici e le loro culture. In questo senso, il Sinodo, in quanto evento ecclesiale, può essere un segno importante della risposta efficace per la promozione della giustizia e la difesa della dignità delle persone più colpite. In generale crediamo che tutti – società, governi e Chiesa – possiamo fare attenzione a queste voci per assumerci in modo più consistente le nostre rispettive responsabilità, differenziate e potenzialmente complementari.
Vogliamo fare nostra l’enorme sfida che ci propone papa Francesco, quando afferma: «Credo che il problema essenziale sia come conciliare il diritto allo sviluppo, compreso quello sociale e culturale, con la tutela delle caratteristiche proprie degli indigeni e dei loro territori. […] In questo senso dovrebbe sempre prevalere il diritto al consenso previo e informato»[9].
da card. Pedro Ricardo Barreto
Copyright © 2019 – La Civiltà Cattolica
Quaderno 4058 - pag. 105 - 113 . Anno 2019 . Volume III . 20 luglio 2019
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(ENGLISH) (ESPAÑOL) (FRANÇAIS)
Riproduzione riservata
[1]. Francesco, Incontro con i popoli dell’ Amazzonia, Puerto Maldonado (Perù), 19 gennaio 2018.
[2]. Insieme alla consultazione diretta delle stesse Conferenze episcopali (e delle giurisdizioni presenti sul territorio) dei Paesi amazzonici.
[3]. La Repam è un’entità co-fondata dalle istituzioni regionali della Chiesa cattolica: il Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), la Clar (Confederazione dei religiosi e religiose latinoamericani), la Pastorale sociale Caritas dell’America Latina, la Cnbb (Commissione episcopale per l’Amazzonia dei vescovi del Brasile), con l’appoggio del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale del Vaticano. Riunisce quindi tutti i diversi referenti della Chiesa cattolica che operano nell’accompagnamento pastorale e nella difesa integrale di gruppi vulnerabili (con speciale attenzione ai popoli indigeni e ad altre minoranze) e dei loro diritti, e nella promozione di alternative esistenziali per popoli e comunità che abitano questo territorio. Cfr anche A. Spadaro, «Verso il Sinodo dell’Amazzonia. Intervista al card. Cláudio Hummes», in Civ. Catt. 2019 II 343-356.
[4]. Il testo che presentiamo rielabora un nostro intervento alla riunione con i rappresentanti pontifici e gli ambasciatori dei Paesi che compongono il territorio amazzonico. L’incontro è avvenuto presso la Segreteria di Stato nel giugno scorso.
[5]. Francesco, Incontro con i popoli dell’ Amazzonia, cit.
[7]. Francesco, «Discorso ai partecipanti all’Incontro promosso dal Dicastero per lo Sviluppo umano integrale sul tema: transizione energetica e cura della nostra casa comune», 14 giugno 2019.
[8]. Id., Incontro con i popoli dell’Amazzonia, cit.
[9]. Id., Discorso ai rappresentanti di popoli indigeni, che si riuniscono a Roma in occasione della 40a sessione del Consiglio dei governatori del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD), 15 febbraio 2017.