Amazzonia, Educazione integrale. Articolo di Michele Giulio Masciarelli
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Articolo di Michele Giulio Masciarelli
Contro la policrisi, l’educazione ai valori
L’Occidente, vittima di una “policrisi”. In tutto l’Occidente mancano «certezze e valori» e non in misura lieve. La nostra epoca ci fa assistere a un crollo spaventoso del patrimonio valoriale: sembra essersi oscurata la coscienza dei valori assoluti e perenni, a favore dello sviluppo di un pericoloso soggettivismo che ormai permea nocivamente ogni plaga dell’esistenza umana: culturale, sociale, politica e perfino etica e religiosa. Si tratta di una crisi, impressionante per vastità e, soprattutto, per profondità. Questa notte valoriale non lascia tranquilli né individui né società né gruppi né istituzioni. Ma come uscirne? È presto detto: per la via aeducationis. Questa è l’unica strada che porta lontano.
In un tempo che si colloca dentro un orizzonte di vita sempre più sfibrato e mesto, causato da una vera e preoccupante policrisi, che si apre come a metastasi, a cominciare dalla caduta di molte certezze etiche sfilacciando il tessuto dei grandi valori in tutte le direzioni geografiche. Si fa impellente perciò, anche in Amazzonia, la necessità di riprendere il discorso sui valori forti, i soli in grado di reggere l’esistenza dei singoli, delle comunità e dei popoli. È un’impresa difficile da compiere, per di più anche controcorrente, se si osserva, ad esempio, che oggi nelle scuole ci si dedica, quasi esclusivamente, alla coltivazione delle conoscenze, delle competenze e delle capacità.
Uscire dalla notte valoriale
«Occorre ritessere sempre daccapo la tela che la violenza distrugge», affermava Ignazio Silone. Tuttavia, la necessaria ricostruzione del mondo dei valori appare oltremodo ostica. Per farla, nessuno possiede la verga fiorita di Aronne (cfr. Nm 17,10) né la pentola d’oro che contiene la manna (cfr. Es 16,33, Eb 9,4): si tratta di cercare insieme le vie della sapienza educativa, che siano in grado di preparare un futuro ricco di umanità, anche se talvolta queste strade possono consigliare di tornare indietro a ricercare qualcosa che abbiamo perso sulla strada sconnessa dell’esodo.
Fortunatamente il Vangelo ci si presenta quale roccia dalla quale possono ben scaturire ancora polloni di sapienza umana d’alta qualità. Oggi si parla, comunque, di valorizzare la ‘pedagogia del rovescio’ quale metodologia che sa guardare alla tela lacerata dell’esistenza dal lato rovinato, dove forse si conservano ancora taluni tratti del disegno del lato dritto. In un senso molto ampio è ‘pedagogia del rovescio’, proprio quella che chiede di fare stop con una pedagogia descrittivistica, per tentare di ritessere l’ordito lacerato di una pedagogia che non può evitare di coltivare il tema del perché educare, l’idea di fine dell’educazione e quella del volto dell’uomo che si vuole coltivare e accarezzare.
La Chiesa amazzonica si presenta al prossimo Sinodo con l’umile fierezza di poter annunciare che la sua gente, i suoi popoli non hanno solo bisogno di ricevere, ma anche di dare in termini di riconquista e di nuova offerta dei valori naturali, umani e cristiani: «I popoli amazzonici originari hanno molto da insegnarci. Riconosciamo che per migliaia di anni si sono presi cura della loro terra, dell’acqua e della foresta, e sono riusciti a preservarli fino ad oggi, affinché l’umanità possa beneficiare della gioia dei doni gratuiti della creazione di Dio. I nuovi cammini di evangelizzazione devono essere costruiti in dialogo con queste sapienze ancestrali in cui si manifestano semi del Verbo» (IL 29).
L’Amazzonia e le risorse dei suoi valori
Anche l’Amazzonia è certamente coinvolta, nei modi locali propri, nella devastante crisi valoriale, ma essa dispone anche di notevoli risorse valoriali dalle quali occorre partire per fare parete alla nominata “policrisi” a cui non sfugge e per dare avvio, anche sulla spinta del prossimo Sinodo, alla rifioritura di una florida stagione dei valori. Basta abbozzare, in modo litanico, quanto il Sinodo si dispone a discutere sul tema:
1. Anzitutto, nelle famiglie amazzoniche pulsa l’esperienza cosmica (con conoscenze e pratiche millenarie in svariati campi, anche con sfondo religioso). In esse «si trasmettono anche valori culturali come l’amore per la terra, la reciprocità, la solidarietà, il vivere nel presente, il senso della famiglia, la semplicità, il lavoro comunitario, l’organizzazione interna, la medicina e l’educazione ancestrale. Inoltre, la cultura orale (storie, credenze e canti), con i suoi colori, abiti, cibo, lingue e riti fa parte di questa eredità che si trasmette in famiglia. Insomma, è nella famiglia che si impara a vivere in armonia: tra i popoli, tra le generazioni, con la natura, in dialogo con gli spiriti» (IL 75).
2. In Amazzonia se la Chiesa diverrà Chiesa partecipativa, Chiesa accogliente, Chiesa creativa, Chiesa armoniosa, potrà promuovere i valori della pace, della misericordia e della comunione (cfr. IL 112).
3. «I popoli dell’America Latina e dei Caraibi si aspettano molto dalla vita consacrata [… che mostra] il volto materno della Chiesa. Il loro desiderio di ascolto, accoglienza e servizio, e la loro testimonianza dei valori alternativi del Regno, dimostrano che una nuova società latino-americana e caraibica, fondata in Cristo, è possibile”» (IL 129/D).
4. Sul rapporto mezzi di comunicazione – valori, si hanno due considerazioni, una critica e una positiva: a) I mezzi di comunicazione sociale di massa trasmettono modelli di comportamento, stili di vita, valori, mentalità che condizionano negativamente specie le generazioni nuove poiché trasmettono una cultura che tende ad imporsi e ad uniformare il mondo interconnesso amazzonico. Così, spesso i giovani non valorizzano o rifiutano la propria cultura e le proprie tradizioni, accettando acriticamente il modello culturale imperante (cfr. IL 140); b) La Chiesa amazzonica, peraltro, possiede una notevole infrastruttura di mezzi di comunicazione, specie di stazioni radio, ritenuti uno strumento molto importante per trasmettere lo stile di vita evangelico, i suoi valori e i suoi criteri, oltre che per informare sulla vita della regione. Questi mezzi servono anche agli indigeni per far conoscere i loro valori, che il mondo moderno non ha. In tal modo, la conoscenza del loro patrimonio valoriale può avere grande risonanza e aiutare la conversione ecologica della Chiesa e del pianeta. Il proposito è che la realtà amazzonica esca dall’Amazzonia e abbia ripercussione planetaria (cfr. IL 141).
La Chiesa soggetto educativo: è discepola e maestra
Una Chiesa discepolare, come Gesù l’ha voluta. L’IL, iniziando il suo Capitolo sull’Educazione integrale, parla della Chiesa sinodale come suo soggetto, spiegandone l’indole essenziale: essa è soggetto del processo educativo perché è discepola e maestra, due parole evidentemente del vocabolario pedagogico. Nell’ecclesiologia del secolo XX il teologo gesuita A. Dulles individua diversi modelli di Chiesa, una delle quali è la Chiesa quale comunità dei discepoli. Proprio questa è la Chiesa che Gesù ha sognato: i suoi li chiamava “discepoli” e la comunità che essi componevano era, conseguentemente, disceplare (cfr. H.J. Venetz, Così cominciò la Chiesa. Sguardo sul Nuovo Testamento, Brescia 1989; G. Lohfink: Come Gesù voleva la sua comunità? La Chiesa quale dovrebbe essere oggi, Cinisello Balsamo-MI 1987).
Tale forma di Chiesa è così fondamentale e comprensiva di sensi, da poter essere considerata – davvero con buon intuito e con buone ragioni – come l’unica “figura” o il solo “modello” in cui possono convergere i tratti caratteristici della Chiesa e in cui trovare addirittura la sintesi degli altri modelli ecclesiologici (cfr. A. Dulles: Modelli di Chiesa, Padova 2005).
Al prossimo Sinodo la Chiesa amazzonica si propone di proporre alcune decisive esperienze, adatte a conquistare una matura discepolanza: «Attraverso l’ascolto reciproco dei popoli e della natura, la Chiesa si trasforma in una Chiesa in uscita, sia geografica che strutturale; in una Chiesa sorella e discepola attraverso la sinodalità» (IL 92). Così, l’IL coinnesta queste due forme educative sotto la grande e sicura volta di una Chiesa che vive di ascolto e di dialogo, ossia che si pone come «Chiesa sinodale» proprio perché è «discepola e maestra» (IL 92). Infatti, l’anima di una Chiesa sinodale è anzitutto l’imitazione del Dio trinitario, fonte prima di sinodalità, in particolare quale discepola del Maestro interiore che è lo Spirito Santo (cfr. M.G. Masciarelli, Sinodalità e Spirito Santo, in L’Osservatore Romano: 1.9.2019, p. 6).
Una Chiesa in compagnia di Maria. Il modo concreto che la Chiesa può adottare per diventare discepola e maestra è imitare Maria che è «la prima e più perfetta discepola di Cristo» (san Paolo VI) e imitare il Cristo nella sua a competenza specifica di unico conoscitore del cuore del Padre, perché è il Figlio essenziale (cfr. Mt 11,25-30) e d’insuperabile conoscitore del cuore dell’uomo, poiché «egli solo sa cosa c’è dentro l’uomo, egli solo lo sa» (san Giovanni Paolo II).
Il primo compito della Chiesa è di essere una discepola alla scuola di Gesù Maestro, come Maria lo è stata con Gesù nella vita terrena. E, perché discepola, lei diventa anche maestra della Chiesa. È assai particolare il transito che si opera in Maria di Nazaret dalla competenza discepolare alla competenza educativa: tale passaggio non comporta che lei lasci la condizione di discepola per assumere quella di maestra.
Dunque, Maria continua ad essere discepola anche nell’esercizio educativo che esercita a lungo e in tante direzioni; anzi è la condizione discepolare che rende Maria maestra ed educatrice: infatti, Maria è Maestra insegnando discepolanza a Cristo (cfr. M.G. Masciarelli: Discepola, in L’Osservatore Romano, 1-2.7.2019, p. 4; Discepola e per questo maestra, Ivi, 9.6.2019, p. 4).
La Chiesa amazzonica, guardando a Maria, quale discepola e maestra, al Sinodo troverà modo di ispirarsi a lei nel far missione nel modo più essenziale del termine: Maria, infatti, non le è, né le sarà di esempio nella missione educativa in aspetti secondari o solo importanti, ma quelli essenziali, soprattutto in uno, nell’impegno a far conoscere e, anzitutto, a portare ai suoi popoli la persona di Gesù (cfr. IL 43, Esergo sul n. 99, 105).
Una Chiesa sulla scia dello Spirito. Sullo sfondo di ogni discorso sulla Chiesa amazzonico, anche sull’importante discorso educativo (che s’avvicina all’opera evangelizzatrice e, più di una volta, coincide con essa) c’è il richiamo all’opera dello Spirito, il primo “Consigliere” della Chiesa, il grande “Maestro interiore”, l’invisibile “Suggeritore del bene” nella storia e dei singoli e delle genti.
In concreto, nel «Tutto è connesso», espressione più volte ripetuta (IL 8, 20, 21, 69), ma implicitamente contenuta in quell’idea-madre, che è la «integralità», c’è senza meno la connessione fra educazione e profezia cristiana. «Nella voce dei poveri è lo Spirito; per questo la Chiesa deve ascoltarli, sono un luogo teologico. Nell’ascolto del dolore, il silenzio diventa necessario per poter ascoltare la voce dello Spirito di Dio. La voce profetica implica un nuovo sguardo contemplativo capace di misericordia e di impegno. Come parte del popolo amazzonico, la Chiesa ricrea la sua profezia, a partire dalla tradizione indigena e cristiana» (IL 144).
L’educazione è una «traditio lampadis»
Dinanzi alla policrisi, la terribile parola già più volte sopra evocata, si tenta di trovare strade educative che portino non anzitutto a imparare come risolvere problemi (cosa pur necessaria e da saper fare), ma ad essere e a crescere nell’essere, in vista della soluzione dei problemi che di mano in mano la vita pone dinanzi (cfr. E. Morin, Terra-Patria, Milano 1993, pp. 92-94).
C’è un’importante innovazione che va operata in campo educativo ed è la personalizzazione dei valori che provengono dalla tradizione. Anche i più grandi valori ereditati dal passato vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una scelta personale. Educare significa tramandare valori, stili di vita, ragioni di fiducia negli uomini e di speranza verso il futuro. Purtroppo, negli ultimi decenni, almeno in Occidente (dall’Europa alle Americhe), è venuta gravemente meno la «traditio lampadis» (1657), come recita il titolo di un fondamentale libro pedagogico di Giovanni Amos Comenio, ossia la consegna, da una generazione all’altra della fiaccola dei grandi valori condivisi.
Perciò, educare significa ricordare e ricercare, conservare e tramandare la sapienza di vita, ossia la verità, la bontà, la bellezza che le generazioni passate hanno espresso, al fine di accrescerle e di rinnovarle: educare è porsi alla ricerca delle proprie radici e conservarle. Anzi, in un senso più largo e più esteso, educare, per H. Arendt, è «conservare»: «Non vorrei essere fraintesa – precisa –: secondo me il conservatorismo, o meglio “il conservare”, è parte essenziale dell’attività educativa, che si prefigge sempre di custodire, proteggere qualcosa: il bambino dal mondo, il mondo dal bambino, il nuovo dal vecchio, il vecchio dal nuovo» (Tra passato e futuro, Milano 19992, p. 250).
Ricordare è pedagogicamente importante per vivere saggiamente il presente senza cadere nelle forre del presentismo e senza avventurarsi velleitariamente verso orizzonti di futuro vanesi e non raggiungibili. Questo è tema caro alla Chiesa, alle culture e anche ai giovani dell’Amazzonia: bisogna essere gelosi del proprio patrimonio sapienziale e dedicarsi a recuperarne le radici perse o spezzate (cfr. IL 27; 129).
Affidarsi alla sola tecnologia non basta
Impressiona quanto l’IL mette in esergo al capitolo sull’«Educazione integrale»: «Noi giovani abbiamo perso la nostra identità culturale e la nostra lingua in particolare. Dimentichiamo di avere le nostre radici, di appartenere ad un popolo originario e ci siamo fatti prendere dalla tecnologia. Non è male tenere il piede in due staffe, conoscere il moderno e conservare anche la tradizione. Dove ti trovi tieni sempre presente entrambe le cose, tieni presente le tue radici, da dove vieni e non dimenticarlo” (Slendy Grefa, Doc. Consulta, Ecuador)».
Si tratta, anzitutto, di evitare una frattura epocale, quella fra la grande tradizione e la modernità, che si presenta, purtroppo, rappresentata prevalentemente dalla sola tecnologia. Di questa noi dobbiamo essere grati perché non si contano i benefici che procura, ma essa non può essere assunta al rango di un assoluto o posta nell’ordine dei fini, ma va tenuta rigorosamente dentro la zona dei mezzi, perché per educare non è riducibile al dato didattico. Cosicché la tecnologia non basta.
Purtroppo, anche il mondo dell’educazione – geograficamente un po’ dovunque – ha sostituito la formazione con l’istruzione e con le iniziazioni alle tecnologie. Certo, abbandonate la ricerca del vero e la coltivazione dei contenuti, è inevitabile lo scivolamento verso il “come” metodologico quale unica meta, come se non avessero rilevanza il “perché” educare e “verso che cosa educare”. È la situazione penosa in cui ci si viene a trovarsi negli ultimi decenni, nei quali l’elemento tecnologico è diventato omnipervasivo e onnicomprensivo nella proposta educativa degli ordinamenti scolastici.
Superare con saggezze fratture
Si tratta anche di superare un’altra grave frattura, di cui i giovani non parlano nel testo ora riportato, ma a cui forse alludono fra le pieghe nascoste del loro rammarico espresso per aver perso l’«identità culturale» e la loro «lingua». Si ricorda così un conflitto da risolvere, quello fra le generazioni, che molti anni fa dava il titolo a un libro di Margaret Mead: Generazioni in conflitto (Rizzoli, Milano 1972).
Fa ben sperare, comunque, quanto i giovani hanno scritto nel pensiero da loro scritto e sopra riportato. Essi riconoscono di aver perso la «identità culturale», la «lingua» della loro Terra, della loro gente. Tuttavia, è bella e intrigante la bella sfida che si pone dinanzi a loro: essi sono chiamati a operare una grande sintesi epocale, quella fra il «moderno» da conoscere e la «tradizione» da conservare. È un’importante prova d’intelligenza e di saggezza che essi debbono saper e voler dare, naturalmente accompagnati da maestri, educatori, saggi in un compito pedagogico per lo più inedito.
L’Instrumentum Laboris si mostra ben convinto di questa affermazione critica e fiduciosa dei giovani, quando scrive: «Tanto le cosmovisioni amazzoniche che quella cristiana sono in crisi a causa dell’imposizione del mercantilismo, della secolarizzazione, della cultura dello scarto e dell’idolatria del denaro (cf. EG 54-55). Questa crisi colpisce soprattutto i giovani e i contesti urbani che perdono le solide radici della tradizione» (IL 27).
Un’educazione fedele alla Terra
Fondale fisso dell’educazione dei popoli amazzonici è l’aderenza alla Terra e al fascio di significati che tale parola racchiude. Suo scopo è un evento formativo nel segno mai dimenticato dell’ecologia integrale. Questa è la cosmovisione che comprende la chiamata a liberarsi da una visione frammentata della realtà, perché incapace di percepire le molteplici connessioni, interrelazioni e interdipendenze (cfr. LS 95). Ecologia integrale significa, inoltre, una forma di educazione che non esclude i singoli, ma privilegia il parlare dei popoli all’insegna della responsabilità: una dimensione, questa, sfortunatamente dimenticata un po’ dovunque in Occidente, ma che da sempre in America latina ha mantenuto attenzione alta; basti l’esempio della «pedagogia della coscientizzazione» di Paulo Freire (cfr. Pedagogia degli oppressi, L’educazione come pratica di libertà (trad. it. Milano 1973), Pedagogia dell’autonomia (trad. it. Torino 2004) e Pedagogia della speranza (trad. it. Torino, 2008).
L’IL parla, inoltre, con ammirevole responsabilità, di reimpostare gli itinerari pedagogici di un’etica ecologica, in modo che aiutino effettivamente a crescere nella solidarietà e nella cura basata sulla compassione (cfr. LS 95). Infine, è proposto un accordo armonioso, sebbene difficile, come sempre quando ci si propone di annodare grandi idee. L’accordo armonico è questo: l’educazione responsabile «unisce l’impegno per la cura della terra con l’impegno per i poveri e suscita atteggiamenti di sobrietà e rispetto vissuti attraverso un’austerità responsabile, la contemplazione riconoscente del mondo, [la] cura per la fragilità dei poveri e dell’ambiente» (cfr. LS 97).
Una conclusione brevissima
Dobbiamo alla bella intuizione di Martin Buber se nel Novecento s’è preso a parlare di educazione come incontro (cfr. Incontro. Rammenti autobiografici, A cura di D. Bidussa, Roma 19982; G. Milan, Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber, Roma 2002). Gaudiosa è la sorpresa di vedere che l’IL, a sua volta, parli di «educazione come incontro» (cfr. LS 40, 93, 94, 97). E non solo gaudioso è il fatto che, all’interno del discorso educativo-pastorale, si parli più volte ed esplicitamente di «incontro con Cristo» (cfr. LS 36, 37).
Come si è appena sopra accennato, proprio questo Maria, discepola e maestra, insegna alla Chiesa amazzonica per il prossimo Sinodo. È un insegnamento capitale, poiché la persona di Cristo (prima d’ogni altra cosa) è l’essenza del Cristianesimo, come ha insegnato il grande teologo italo-tedesco, ma anzitutto uomo di Chiesa e di Vangelo, Romano Guardini (cfr. L’essenza del cristianesimo, Brescia 1962).
In terra cristiana insegnare altro è fuorviante, insegnare saltando questo tema è fare un’educazione gravemente monca. Qui si sta dicendo, infatti, non solo di parlare di Cristo, ma di procurare l’incontro con lui. Fra l’altro, si tratta di una scelta bella, poiché con la bellezza si dà l’incontro, mentre col brutto si dà solo e sempre il disincontro.